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Un inverno da Lupi

Un inverno da Lupi

Era l’inverno del ’47, il mese di gennaio e la seconda guerra mondiale finita da qualche anno aveva liberato i suoi spettri che, incontrastati popolavano i paesi del nostro Salento. La disoccupazione, la povertà e la fame dilagavano incontrastate tra la gente. La fame vera, quella da mancanza di pane, era uno dei motivi principali che spinse i contadini dell’Arneo, nel Natale del ’50, ad occupare le terre incolte della fascia costiera e fu durante questa occupazione che videro le loro biciclette distrutte dall’intervento della polizia. Fu proprio la fame e la disperazione di quel lungo inverno del ’47, che portò un gruppo di disoccupati, in sella alle loro sciancate biciclette, dentro la “fattizze ti l’Antagiani”.

La masseria Vantaggiani, in quegli anni era stata presa a mezzadria da più coloni: chi gestiva le pecore, chi coltivava il tabacco, chi, come Mimino e Nnino, avevano preso a mezzadria due giovenche e alcuni ettari di terreno da coltiva a seminativo. Nelle masserie il lavoro c’era e la fame, a conferma di quanto sostiene un vecchio proverbio, si riusciva a contenerla ( cumentu e massaria tre mije larga la caristia) . Mimino, il più grande dei due giovani reduci dalla guerra, vedendo un manipolo di una quindicina di persone, con un fare baldanzoso e strafottente avvicinarsi ai terreni della masseria dalla direzione di S. Pancrazio, interruppe il suo lavoro e cominciò a tenerli d’occhio.

Arrivati nella “fattizza “ questi poveri disgraziati cominciarono chi con “ lu zzappune” e chi con “la sarchiuddra” a “fare pampashiuni”. Non essendoci altro da mangiare ci si accontentava di fare “na sciotta” di lampagioni per contenere i morsi della fame. Purtroppo avevano sbagliato ad entrare nella “fattizza”, perché le piccole fosse, fatte per estrarre i lampagioni, avrebbero rovinato il prato che dava da mangiare alle pecore, queste avevano la priorità su tutto nell’uso della fattizza. La fattizza era il terreno che nell’annata precedente era stato coltivato a seminativo e le stoppie servivano durante l’estate e l’autunno a far pascolare le pecore; con le prime piogge autunnali spuntava l’erba e le pecore avevano il pascolo assicurato per tutto l’inverno. Poi, nel periodo primaverile, quando il lavoro era meno intenso, questa terra la si arava e la si preparava per l’anno successivo. Mimino nella speranza di minimizzare i danni, andò verso il gruppo di intrusi e, dopo averli salutati, li invitò con garbo a sospendere quel lavoro per almeno due motivi: primo si trovavano nella proprietà altrui e secondo stavano rovinando la “fattizza”. La risposta fu immediata, minacciosa e convincente: “vattene se non vuoi la peggio” e subito comparve nella mano di quello che sembrava il capo, una pistola e continuò “vai avanti, alla masseria, e prepara da mangiare perché tra poco arriveremo lì e vorremmo riempire la pancia”. Gli altri del gruppo, come se ormai il comportamento fosse già collaudato, fecero notare al malcapitato che anche loro erano armati. Sorpreso dalla reazione inattesa Mimino accennò a un “va bene” che gli rimase tra la gola e le labbra e, giratosi, tornò verso la masseria.

Ma ad un veterano della guerra, ad uno che per sopravvivere a quanto di peggio una guerra può portare, non si può metter paura o indurlo ad una facile resa. La guerra era finita da poco e sebbene mancasse il pane non mancavano le armi tra la gente. Infatti il fattore della masseria aveva dato in consegna agli affittuari “per ogni evenienza “ di difficile gestione un moschetto militare, di quelli in dotazione alla marina, cioè un moschetto di alta precisione: “ a un chilometro e mezzo faceva bersaglio”, ripeteva con orgoglio Mimino quando raccontava questa storia. E questo doveva essere vero se proprio grazie a quest’arma riuscì a “convincere li papasciunari” ad andare via. Tornato alla masseria a bassa voce disse: “Nino, rivolgendosi al cognato”, porta le donne al sicuro con i genitori senza allarmarle e tu salta sul cavallo e tieniti pronto. Li pampasciunari stanno rovinando la fattizza e tra un po’ arriveranno alla masseria per mangiare”. Appena il tempo di finire la frase che non solo le donne erano al sicuro insieme ai loro genitori, ma una pistola era pronta a armare la mano di Nino. “Mettila a posto” sussurrò Mimino quasi per non distrarre la propria mente che già progettava tutta l’azione “tu resta qui pronto a intervenire se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto. Quella pistola non serve”. Si allontanò dall’abitato della masseria finché non trovò “na mureddrha” a una bella distanza dai “pampasciunari” e qui dopo aver spostato qualche sasso per stare comodo, caricò il moschetto, regolò l’alzo e fece le diverse prove per essere sicuro che tutto sarebbe andato secondo i suoi piani. In quei momenti ripassava mentalmente tutte le esperienze fatte durante i nove anni di servizio militare ricordando, tra sé e sé, che lui era un tiratore scelto e che grazie al suo intervento, nel ’43, una spia, durante i bombardamenti di Genova da parte degli americani, smise di segnale i bersagli da colpire.

Era orgoglioso di essere un tiratore scelto ed era orgoglioso di aver abbattuto, con la sua mitragliatrice di 20 mm di fabbricazione tedesca, un aereo americano sempre a Genova e il suo orgoglio toccava livelli incredibili quando ricordava di aver battuto, in una gara di tiro al bersaglio, un maresciallo istruttore tedesco. In quel momento, però, il sapere che la sua giovane moglie, la sua piccola figlia e tutti gli altri abitanti della masseria affidavano alla sua bravura la loro incolumità, lo caricava di responsabilità, come mai era successo nella sua vita. Questo lo rendeva silenzioso nella parola ma fortemente produttivo nella ideazione. Poggiata la canna su un sasso e imbracciato fermamente il moschetto, attraverso la retta che passava tra il suo occhio, il mirino e il bersaglio, studiò per un po’ di tempo i movimenti del capo banda e quando ebbe ben memorizzati i movimenti e i tempi del “pampasciunaru”, trattenuto il respiro, fece partire il primo colpo. Neanche il tempo che gli intrusi capissero il perché di quell’esplosione che subito si sentì un rumore metallico: il proiettile aveva centra “la sarchiuddrha” del capobanda facendolo sobbalzare per la pura e, come se fosse stato colpito da una scossa elettrica, lanciò istintivamente lontano lo strumento di lavoro. Tutti si guardarono intorno ma non si vedeva anima viva.

Un secondo sparo echeggiò nell’aria e quasi nello stesso tempo un sibilo passò sulla testa dei contadini.Un terzo sparo confermerò ai contadini che lì erano indesiderati. Non vedendo nessuno verso il quale volgere la loro attenzione e cominciando la paura a farsi largo dentro di loro, il manipolo di disoccupati, girò le spalle verso la masseria e si diresse verso il punto in cui avevano lasciato le loro biciclette, senza più voltarsi indietro, anche perché di tanto in tanto ad uno sparo seguiva un sinistro sibilo sulle loro teste. Tutto finì, almeno dalla parte di Mimino, nel miglior dei modi, ma di certo a causa della arroganza dei loro padroni, anche per quel giorno qualche stomaco non ebbe nulla da mettere dentro. Una fine ben diversa, invece, tocco a dei “pampasciunari” di Carmiano , ma questo……. sarà il racconto di un’altra volta.

Di Nicola Gennachi

Immagine di SplitShire da Pixabay

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