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Terzo Fronte: Fronte Russo 1943 (Michele Nicolaci)

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Terzo Fronte: Fronte Russo 1943 (Michele Nicolaci)

Giorno 20 agosto, del 1942, siamo partiti per la Russia con la Seconda Compagnia, Primo Battsagloone Artieri facente parte dell’ARMIR. Vi siamo giunti il 3 settembre, esattamente a Circovo (Kirovogr). Dono pochi giorni siamo partiti per Voroscirogradi (Vorošilovgrad); poi, sempre a piedi, siamo partiti alla volta di Rostov, sul fiume Don.

Giorno 13 gennaio del 1943 il nostro battaglione si trovava imbarazzato già dal nemico russo ed allora ha rafforzato la doppia guardia; sono capitato io a dover fare la guardia di fuori mentre un altro soldato, un certo Deboni, faceva la guardia all’interno.
Verso le nove di sera, passa l’ispezione ed io gli ho intimato “l’altolà” una prima volta, ma niente da fare: non voleva fermarsi. Gli ho intimato “l’altolà” per la seconda volta e gli ho anche puntato il moschetto a tiro di sparo: questa volta si è fermato e ha detto: “Sono l’ispezione, chiamami subito il capo-posto!”. Io dissi alla guardia interna: “Chiama il capo-posto, è l’ispezione.” Il capo-posto tardò un pochino, quando venne mi chiese cosa era successo, gli dissi che si trattava dell’ispezione. Il capo-posto controllò la parola d’ordine, l’ispezione disse: “Roma” ed il capo-posto rispose: “Avanti, Romolo”. L’ispezione è venuta da me domandandomi nome e cognome, ma io non ho risposto; poiché io non rispondevo disse al capo-posto di darmi l’ordine di parlare: solo allora, dopo che ricevetti l’ordine di parlare, dissi: “Sono il geniere alpino Nicolaci Michele, della seconda Compagnia”. Mi chiese allora il fucile, io feci tre passi indietro, scaricai il fucile, tolsi l’attonatorio e gli diedi il fucile di canna; lui voleva darmelo al contrario, per trovare un pretesto per potermi punire, ma io dissi di darmi il fucile nel modo corretto, mi diede tutto per bene e poi aggiunse: “Io ed il capo-posto andiamo a fare i nostri conti”.
Mentre entravamo al comando di Battaglione, si sentiva un uomo russo che gridava, io dicevo di non aver paura di lui che era ubriaco; diceva che doveva andare a casa. Io lo andai a prendere e proprio in quel momento è arrivato l’ufficiale di ispezione e lo abbiamo catturato insieme, così il signor tenente Cappello lo restituì al comando di Battaglione, io non ne ho saputo più nulla.
All’indomani, verso le otto del mattino, ho incontrato uno della foreria che mi conosceva, mi diceva: “Auguri, Nicolaci”, io gli  chiedevo il perché di questi auguri; mi rispose che per il fatto accaduto la sera precedente ero stato decorato al valor militare perché avevo fatto una prodezza davanti all’aiutante maggiore del comando di Battaglione. Io lo ringraziai per gli auguri, dicendogli che in effetti era vero.
La carte ufficiali del riconoscimento non sono comunque mai state spedito perché qualche ora dopo quegli avvenimenti noi guardie siamo state mandate nel caposaldo “Torino” dove stavamo appostati perché il nemico incombeva. Mentre stavamo per giungere al nostro fortino, i Russi hanno attaccato il fuoco su Rostov: non si capiva più niente.
Poco tempo dopo ci attaccarono con colpi a strappo e vedevo i miei compagni cadere morti per terra: immaginate in che condizioni tristi mi trovavo. Io ed un altro compagno, un certo Orobello, c’eravamo stesi per terra,  sulla neve, in un freddo al di sotto dei 40-45° sotto lo zero: il nostro cuore era pieno di tristezza e di amarezza.
Orbello chiese: “Nicolaci, cosa facciamo noi adesso?”. Il nemico continuava a sparare senza sosta contro il nostro fortino; io risposi ad Orobello: “Lasciamo tutto per terra come si trova ed andiamo via. Forse ce la faremo a scappare!”. Orobello non sapeva né leggere né scrivere, così mi disse: “Nicolaci, prendi la carta, l’inchiostro e la penna dalla zaino, forse riusciremo a scrivere alla nostre famiglie”. Così feci. Poi abbiamo iniziato a sdraiarci e piano piano siamo rotolati verso la vallata e così siamo riusciti a scampare quel pericolo; siamo giunti alla strada dove c’erano le nostre truppe in ritirata e lì abbiamo incontrato il signor capitano Ciampi della Terza Compagnia, il quale ci ha fatto coraggio e ha detto: “Ragazzi, come passano i camion o le camionette gettatevi su e proseguite la via del vostro destino!”. Dopo quel giorno il signor capitano Ciampi non l’ho più rivisto. Da quel momento è iniziato il mio cammino per tornare nella mia amata Patria.

Io porto sempre nella mia mente e nei miei pensieri il ricordo dei cognomi degli ufficiali del mio battaglione: colonnello Gnecchi, comandante del Primo Battaglione Genio Alpini; tenente Cappello, volontario di carriera, aiutante maggiore di Battaglione; capitano Avanzi, comandante della Seconda Compagnia; sergente Mischi; e, infine, capitano Ciampi della Terza Compagna Conducenti, un uomo conosciuto da tutto il Battaglione per la sua umanità

La prima offensiva in Russia è stata il 14 dicembre, ma fallì; il 14 gennaio del ’43 ci fu la loro vittoria e così noi fummo tutti accerchiati. Iniziò anche la nostra ritirata disordinata, a gruppetti: io ed altri miei compagni il 17 gennaio fummo fatti prigionieri dai russi.
Appena presi prigionieri, tutti e quindici abbiamo alzato le mani, ci hanno subito tolto i guanti, ci hanno perquisito per eventuali armi e munizioni, poi ci hanno accantonati in un angolo dove c’erano già altri prigionieri. Avevamo addosso uno zainetto sistemato alla meglio, con poche cose da mangiare. Mentre eravamo lì, i soldati russi ci hanno tolto lo zaino lasciando tutti noi prigionieri senza nulla da mangiare. Due soldati russi mi hanno chiamato e mi hanno portato dietro l’angolo del caseggiato, mi hanno sbottonato il cappotto strappando furiosamente la pelle di pecora con coi era rivestito e strappando anche lo stesso pastrano dal petto. Il freddo di 40-45° sotto lo zero si faceva ormai sentire sempre di più. Mi tolsero anche il piccolo borsellino che avevo nella camicia di flanella: dentro c’era il tesserino di riconoscimento,  dei soldi e delle foto: mi hanno strappato con furia questo borsellino dividendosi tra loro tutto il suo contenuto. Quando hanno visto delle foto istantanee di ragazze russe, mi hanno minacciato proprio perché quelle ragazze erano russe, nemiche mie, poi hanno visto le foto “a mille punti” dei miei parenti, mi hanno chiesto che era raffigurato in ognuna di quelle foto e io rispondevo loro nel mio russo. Quando hanno visto le foto dei miei genitori si sono commossi molto. Io tremavo dal freddo, allora – esausto – dissi: “Se mi dovete lasciare, liberatemi; se dovete uccidermi, sparatemi adesso!”.
Mi hanno intimato il silenzio, poi loro stessi mi hanno rivestito, mi hanno anche abbottonato il cappotto e mi hanno mandato via. I miei compagni mi hanno chiesto cosa fosse successo, avrebbero accettato qualunque cosa purché non li uccidessero. Dopo un po’, con tutto il passamontagna addosso, si vedevano i nostri nasi che congelavano, occorreva lavarsi con la stessa neve per evitare il congelamento serio. Finalmente ci hanno incolonnati dietro a loro e ci hanno portati via. Mentre camminavamo, hanno preso uno dei cinque prigionieri tedeschi che avevano catturato prima e che stavano nella stessa colonna, gli puntarono la pistola con parole infuriate, lo fecero mettere sull’attenti e lo uccisero con un colpo e poi gli tolsero i vestiti. Noi rattristati e preoccupati, continuavamo a camminare.
All’imbrunire, intorno all’una, quei due soldati di prima, cominciarono a chiamarci, volevano proprio me: sono andato verso di loro preoccupato, pensando che fosse giunta ormai la mia fine, invece mi hanno restituito tutte le foto che mi avevano preso prima, foto che ancora oggi custodisco caramente.
A sera tardi, mentre ancora camminavamo, avevo un gran dolore al petto che aumentava sempre di più e che mi impediva di camminare, il soldato russo che ci accompagnava mi intimava di camminare; all’improvviso ebbi un terribile colpo di tosse che mi fece star meglio.
Verso la notte ci hanno fatto finalmente riposare in una stanza. Le dure scarpe da alpino erano infreddolite, secche; chiesi ai soldati russe di poterle mettere sulla stufa al caldo e, gentilmente e inaspettatamente, mi diedero il permesso.
La mattina dopo ci portarono in un luogo di ritrovo, da lì avrebbero dovuto caricarci sui camion per essere trasferiti in qualche campo di concentramento; per fortuna i camion erano già partiti così dovemmo camminare ancora a piedi per altri cinque giorni.
Nel frattempo arrivò un autoblindo russa, questi militari ci chiesero se eravamo italiani, alla nostra risposta affermativa volevano ucciderci anche perché c’era la colonna italiana in ritirata che stava arrivando proprio in quella zona. I soldati russi che ci avevano scortati fino ad allora, dissero che non era necessario ucciderci, non avevamo fatto nulla. Allora ci portarono in una scuderia e ci chiusero dentro, andarono via dicendo che andavano in cerca di qualcosa da mangiare. Mentre eravamo chiusi sentimmo sparare: ci trovavamo in mezzo a due fuochi, da una parte i nostri alleati (tedeschi ed italiani) e dall’altra i russi. Dopo un po’ ci fu calma, regnò un enorme silenzio; un capitano cappellano propose di aprire la porta per capire cosa stesse succedendo. Dopo varie esitazioni, aprimmo la porta e non c’era nessuno: in lontananza scorgemmo le nostre truppe che venivano verso di noi; noi ci lanciammo verso di loro gridando: “Viva l’Italia! Italiani!” Ci intimarono l’altolà, ci chiesero de davvero eravamo italiani, poi fecero andare avanti prima i soldati armato e, dietro, quelli disarmati.

Dopo cinque giorni circa fummo liberati dalle nostre truppe. Erano circa 300 i soldati prigionieri dei Russi, tutti insieme ci unimmo a quel contingente in ritirata che ci aveva liberato e così, in mezzo a quel gran freddo, abbiamo continuato il nostro amaro cammino della ritirata.

Io ero con questi amici: Danna Domenico, Russo Luigi, D’Amico Giuseppe: in mezzo al freddo e affamati com’eravamo, si camminava in modo disperato senza neanche sapere dove si andava. Un giorno, esattamente il 15 febbraio del ’43, un mio amico del gruppo disse che non ce la faceva più a camminare per la fame, così pensammo di cercare un po’ di legna per poter arrostire un no’ di carne, di un vitello che avevamo catturato e ucciso lungo la strada. Fu così che ci fermammo in una scuderia per accendere il fuoco per arrostire… ma proprio in quel momento un aereo russo sorvolò sopra di noi e iniziò a mitragliarci. “Un apparecchio ci sta mitragliando” disse D’Amico. “Gettiamoci a terra!” rispose bestemmiando Russo Luigi. In quel momento quell’aereo sganciò una bomba su questa scuderia: tanti soldati rimasero sepolti sotto le macerie, tra questi ho perduto per sempre anche il mio amico D’Amico Giuseppe. Io mi salvai la vita perché indossavo l’elmetto che schivò una trave del soffitto. L’altro mio amico, Danna Domenico, si trovava nell’an-golo della scuderia tutto coperto di macerie e gridava: “Nicolaci, aiuto!”: io ero ancora così stordito per la bomba appena caduta che non avevo la forza di andare ad andare ad aiutarlo, ma rimanevo seduto su quella grossa trave del soffitto che, per fortuna, mi era caduta vicinissimo, quasi schivandomi. Sentendo quel mio amico gridare, a mano a mano sono tornato in me. In quel frattempo è passato da lì un soldato e gli ho chiesto di aiutarmi a liberare quel mio amico: in mezzo a tanto freddo e con tanta debolezza fisica che avevamo, ci siamo messi a togliere le macerie piene anche di neve ghiacciata; alla fine, dopo tanti sforzi, Danna è uscito fuori gridando nel suo siciliano: “Fratuzzo mio, mi hai salvato la vita!” e mi abbracciò e mi baciò: “Nicolaci mio, se non fosse stato per te, fratuzzo mio, avrei perduto la vita“.

Poco dopo sentì il mio amico Russo Luigi che chiama-va ognuno di noi per nome e cognome, io risposi felice: “Russo, siamo qui, siamo tutti salvi!”; io dissi che ne mancava uno, e cercando di qua e di là gridando il nome “D’Amico!…D’Amico!” ma senza esito. Allora io gli spiegai che egli stesso ci aveva detto di gettarci tutti a terra quando era passato l’aereo che ci stava mitragliando e poi era venuta giù anche una bomba e D’Amico, insieme a tanti altri compagni, era rimasto sotto le macerie.

Dopo questa spiegazione dovemmo riprendere il nostro cammino, dandogli il nostro ultimo addio nostro lasciammo tutto indietro.

Continuammo il nostro cammino secondo la nostra sorte ed il nostro destino. Il nostro pensiero era quello di andare sempre in testa alla colonna perché c’erano i carri armati e le truppe alleate con noi Italiani.

Verso la fine di febbraio di quello stesso anno giun-gemmo all’uscita della sacca, ma quel passaggio era duro e lì si combatteva anche con armi bianche. Quelli che erano armati, gridando “Savoia! Savoia!” andavano a morire per salvare la nostra bandiera e difen-dere la nostra amata Patria. Per tutto il giorno, fino alla sera, il nemico si accanì contro di noi con aero-plani e forze armate russe sperando in una nostra resa; ma noi, insieme agli Alleati, abbiamo reagito con una forte resistenza non cedendo le armi, combattendo sempre sotto quel freddo, sotto 40° – 45° gradi sotto lo zero. Quello stesso giorno morì anche il nostro generale Martignali: mentre guardava con il binocolo verso il nemico, fu colpito da un proiettile, morì insieme ad altri soldati vicino a lui.

Finalmente al tramonto riuscimmo a rientrare in un paese del quale non conoscevamo il nome; all’indomani riprendemmo il nostro cammino verso Belgorot dove c’erano i nostro Alleati che mantenevano il fronte e si combatteva a morte tra i tedeschi ed i russi: noi eravamo in mezzo a due fuochi, chi cadeva da un lato, chi dall’altro. Riuscimmo a raggiungere una zona più tranquilla e così, quei pochi che siamo riusciti a salvarci dal nemico russo, siamo partiti alla volta di Gomel, una città russa: tutto questo sempre in mezzo ad un freddo al quale non si riusciva a resistere e sempre a piedi.

Un giorno il Quartiere Generale Italiano fece l’adunata dicendoci che i tedeschi ci volevano mettere in polizia e dovevamo andare a combattere insieme a loro; il nostro comando gli rispose dicendo che quei pochi soldati che erano rimasti dovevano essere rimpatriati alla propria Patria, anzi il nostro comando richiese al Quartier Generale dei mezzi per potersi muovere ed un po’ di viveri. Non fummo accontentati né per i mezzi (che servivano a loro per fronteggiare il nemico), né per i viveri, potevano darci solo pochi grammi a testa al giorno: dovemmo piegare la testa e dire “fate come credete”. Il nostro comando fece di nuovo l’adunata facendoci questo discorso: “Ragazzi, tra giorni andiamo via, ancora a piedi. Quello che io vi dico è questo: si sa che noi stiamo in condizioni brutte, sporchi e curvati, però quando passeremo davanti ai Tedeschi dobbiamo cercare di raddrizzarci un po’ per fargli vedere che anche senza i loro viveri noi cerchiamo di andare ancora avanti”.

Così, dopo giorni di triste cammino, arrivò la nostra autocolonna di mezzi italiani che ci condusse nel posto dal quale dovevamo partire col treno per raggiungere la nostra amata Patria. Siamo giunti a Minzischi, qui ci hanno fatto faro il primo bagno, la disinfestazione del vestiario: ci siamo liberati un poco dai pidocchi, dalla sporcizia e da tutto quello che si era attaccato sulla nostra pelle e sui nostri vestiti e abbiamo proseguito per la nostra destinazione.

Il 20 marzo 1943 siamo giunti a Tarvisio, siamo giunti nel territorio italiano, immaginate come sentivamo i nostri cuori pieni di gioia perché andavamo verso le nostre famiglie, ma c’era anche tanta tristezza per quei tanti e tanti nostri compagni che non hanno fatto più ritorno nella nostra amata Patria e alle loro care famiglie, noi gli abbiamo dato un addio, un addio per sempre. 

Tratto da “I miei ricordi della Grande Guerra” di Michele Nicolaci

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