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Sbandamento dell’8 settembre 1943 (Michele Nicolaci)

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Sbandamento dell’8 settembre 1943 (Michele Nicolaci)

L’8 settembre 1943 fu firmato in Italia l’armistizio, immaginate quanta gioia per noi militari combattenti: dopo quattro anni di sofferenze ci sentivamo felici, ma senza sapere che quel giorno si attaccava la vera guerra contro i nostri alleati tedeschi. Così io tornavo a Garda ed alla sera dell’8 settembre, mi hanno fatto montare di ronda assieme a due interpreti tedeschi per i loro militari, ma dopo un po’ che facevamo il nostro servizio di ronda, quei due militari tedeschi non li abbiamo visti più, sono scomparsi senza dire nemmeno una parola, non pensando mai però che eravamo diventati nemici così presto! Ma i nostri ufficiali ci avevano avvertito quando eravamo usciti fuori dalla sacca della Russia che gli alleati di oggi sarebbero stati i nostri nemici di domani, e così è davvero accaduto.
Alla sera dell’8 settembre, quando siamo rientrati dal nostro servizio di ronda in caserma, hanno dato ordine a tutta la truppa di indossare le giberne (cinture con i caricatori di munizioni) con il fucile a fianco a noi e di metterci a riposo in branda così vestiti. Siamo rimasti così per tutta la sera. Verso l’una e mezza della notte, mentre arrivava l’alba del 9 settembre, ci hanno svegliato e hanno fatto subito l’adunata tutti armati, ci hanno fatto uscire fuori, nel cortile, e abbiamo visto un autoblindo con parecchi soldati tedeschi armati: i nostri ufficiali all’improvviso ci hanno detto di consegnare le armi, siamo rimasti disarmati e ci hanno fatto prigionieri. Immaginate come siamo rimasti male; ci dicevamo fra noi compagni, “chissà che fine dobbiamo fare ancora!”. Nella mattinata del 9 settembre, le ragazze di Garda passavano e dicevano che avevano cercato di salvarci, ma non avevano potuto far niente per i tedeschi. I tedeschi cacciarono via le nostre donne, lontano da noi, senza che noi potessimo dire o fare niente. Così verso le 11 del giorno 9 settembre, abbiamo lasciato Garda e ci hanno portato al campo di concentramento di Bardolino, sempre sul lago di Garda, verso le scuole elementari. Parecchie donne, con le quali avevamo relazione, ci portavano da mangiare e nella borsa, sotto i panini e la frutta, mettevano degli abiti di ricambio, da civili, tutto in gran segreto. Le guardie tedesche facevano il loro servizio e noi ci mettevamo in cerchio così, all’interno del cerchio, ci vestivamo da civili. Il muro di recinzione del campo era basso, dietro c’erano delle biciclette pronte con delle ragazze vicino: appena superato il muretto del campo ci si metteva su una bicicletta insieme alle ragazze e andavamo via tutti insieme come se fossimo un’allegra compagnia; in questo modo più di uno riusciva a scappare.
Venendo il giorno 10 settembre, io e il mio amico Danna Domenico volevamo fuggire dal campo; lui mi chiedeva dove andare, se in Sicilia c’erano gli americani, io gli dicevo che in caso io fossi scappato poteva prendersi il mio bottino. Poi non ne abbiamo più parlato.
Io circolavo da solo nel cortile da prigioniero; c’era una guardia di fronte ed una dietro; i due fianchi erano liberi. Mentre passeggiavo da solo, vedo uno che teneva la rete di recinzione alzata con le mani e gli altri compagni che uscivano, mi sono mescolato a loro e sono uscito anch’io: di fronte c’era un finestrone con delle donne che ci aiutavano a salire su quel finestrone e così, subito di fretta, senza discutere nemmeno una parola, ci davano un vestito da civile e lasciavamo la divisa militare, ci vestivamo ed uscivamo da un’osteria, uno per volta. Quando sono uscito io, mentre camminavo, mi giro e vedo due tedeschi armati che camminavano dietro di me; davanti a me c’era un vecchietto che camminava, io lo raggiunsi, gli parlai a bassa voce chiedendogli di dire ai tedeschi – se ce ne fosse stato bisogno – che io ero figlio suo; lui mi fece cenno che aveva capito. Finalmente, noi davanti ed i tedeschi dietro, abbiamo raggiunto un incrocio, noi siamo andati avanti dritti, mentre loro hanno svoltato a destra. Il mio cuore ha cominciato a sospirare, dicendomi che forse ce l’avevo fatta a scappare da quei maledetti nemici. Mi misi a parlare con il vecchietto e gli chiesi dove potevo andare, lui mi ha detto che nascondeva già un maresciallo, diversamente mi avrebbe portato con sé, però mi indicò dove dovevo andare, di cercare un lavoro e di stare tranquillo, così feci effettivamente. Ero entrato in una famiglia così brava che di più non si poteva sperare: mi davano da mangiare come se fossi uno di loro, una stanzetta per conto mio, un lettino come non avevo mai avuto né su cui avevo mai dormito così bene. Però sono stati pochi i giorni che ho trascorso con quelle brave persone perché i tedeschi misero dei manifesti che ammonivano che tutti quelli che erano scappati dalla prigione di Bardolino dovevano presentarsi subito, diversamente ci sarebbero stati dei rastrellamenti e ci sarebbe stata la pena di morte per i militari e anche per le famiglie. Quella povera gente si chiedeva che cosa dovesse fare, così io – sentendo quelle cose – dissi a quella brava gente “signora, io domani vado via per la via del mio destino, io non so come ringraziarvi”. Mi fecero un bel pacchetto di panini, formaggio, porchetta, salame, marmellata e tante altre cose e mi fornirono anche dei documenti fascisti. Presi così la via di Villafranca, sempre a piedi e da solo.
Mentre camminavo, due persone mi si accostarono e mi domandarono se ero un italiano o un tedesco, io dissi di essere italiano; loro dissero che facevo un brutta impressione perché con quei pantaloncini coloniali sembravo un tedesco. Io gli dissi: “Se li avete voi, cambiatemi i pantaloni”, mi risposero di non averne ma di bussare ad un certa porta, lì li avrebbero potuti avere. Ho bussato davvero ad una certa porta ed uscì una brava ragazza, le chiesi se avevano dei pantaloni da poter cambiare, mi disse di attendere un po’. Passò un po’ di tempo e la ragazza non tornava; cominciai a preoccuparmi per diversi motivi. Tornò dopo qualche minuto, invece di portarmi i pantaloni, mi portò del caffè; io, insospettito, l’ho gentilmente accettato, l’ho ringraziata, ma volevo dei pantaloni, non il caffè! “Adesso vi porto i pantaloni – rispose la ragazza – ora prendi il caffè” e così dopo mi portò finalmente un bel paio di pantaloni fasciati, alla zuava. Cambia vestiti e prosegui il mio cammino.

Verso le sei del pomeriggio giunsi a Villafranca. Poiché ero partito da Villafranca per il fronte russo, avevo delle persone che mi conoscevano, così ci incontrammo. Quella sera la trascorsi a Villafranca. Qui, parecchie persone erano state avvisate che c’era uno di passaggio ritornato dal fronte russo, allora oguno domandava dei propri parenti o conoscenti; io gli raccontavo che eravamo ritornati in pochi perché da un battaglione ne eravamo tornati solo 72 tra ufficali, sottufficiali e soldati.

Dopo aver trascorso la notte a Villafranca, mi hanno fornito un altro pacchetto con poca roba da mangiare, ho quindi preso la via per Mozzecane, sempre a piedi.
Finalmente sono giunto alla stazione di Mozzecane ed aspettavo il treno che andava verso il sud; la stazione era tutta affollata da gente con cestini pieni di frutta, stavano infatti arrivando i treni di vagoni bestiame tutti carichi di prigionieri deportati in Germania; le persone cercavano di dare un po’ di frutta ai deportati: c’erano tedeschi che lo permettevano ma c’erano anche quelli che dicevano di no. I prigionieri dai loro vagoni lanciavano biglietti con su scritto l’indirizzo di casa loro e dicevano “Scrivete alla famiglia che siamo prigionieri deportati per nuova destinazione”, si vedeva tanta gente che prendeva i biglietti per poter scrivere alle famiglie di quei poveri deportati.

Finalmente arrivò il treno che io aspettavo e così sono partito per venire verso al bassa Italia. Nel vagone in cui mi trovavo erano tutte persone alte, io ero il più piccolino; quando sul treno passavano i tedeschi per controllare i biglietti dicendo “Documenti! Pappiri!” anche se io avevo dei documenti fascisti, non mi hanno chiesto i documenti perché tutti gli altri erano di alta statura ed io ero basso; in questo modo me la sono cavata bene al primo controllo.
Dopo aver passato parecchi paesi, sono scesi tutti dal treno e io sono rimasto solo nel mio scompartimento. Dopo un po’ si è nuovamente riempito, ma tutto di donne. Fatti alcuni chilometri è passato di nuovo il controllo e questa volta non sapevo proprio cosa fare. Ho detto a quelle donne “Adesso finisco in mano ai tedeschi”; quelle donne sentendo le mie tristi parole, mi hanno detto di mettermi sotto al sedile che mi avrebbero coperto loro stesse; così feci: sono passati allora per i documenti e non mi hanno visto, me la sono cavata bene anche per la seconda volta!

Durante il viaggio siamo giunti alla stazione di Pescara; sono sceso a prendere un po’ d’acqua dalla fontana e proprio mentre riempivo la boraccia di acqua per bere, un giovanotto, in ritirata come tutti gli altri, mi domandò di che provincia ero, gli dissi che ero della provincia di Lecce, poi mi chiese di quale paese fossi, lui mi aveva già riconosciuto, ma io non lo avevo riconosciuto anche perché non sapevo nemmeno che quello era partito come militare. Mi disse “Ma come? Nonmi stai riconoscendo? Sono Vetrano Giovanni!” ed allora sì che lo riconobbi. Disse “Sto morendo di fame!”, siamo andati sul treno e gli ho dato da mangiare un po’ di quello che avevo io, però dopo un po’ dovetti dirgli basta perché non sapevamo ancora quanto sarebbe stato duro il viaggio.
Difatti, prima di arrivare a Ortona, il treno si fermò completamente; lì dove si era fermato il treno c’era un campo di uva primitiva, tutta la gente scese e andò a mangiare l’uva. Arrivarono i proprietari del campo, delicatamente, dissero di mangiare tranquillamente l’uva, ma di rispettare la vite.

Così, a quella fermata, mi sono incontrato con altri di Veglie: oltre a me c’era Vetrano Giovanni, Raffaele Greco, Donateo Ferdinando, Culazzo Carmine, Casavecchia Cosimo e tutti insieme abbiamo deciso di proseguire il viaggio sempre a piedi.
In un paese dopo Ortona, c’era un treno merci carico di botti di vino, c’erano dei civili che trasportavano vino con i loro carrelli bestiame. Mentre noi sei paesani ci avvicinavamo, Nino Vetrano disse che là c’era del vino che stavano riempiendo nelle botti; io gli risposi di provare a berne un po’, con moderazione, perché se qualcuno si fosse ubriacato, sarebbe rimasto per strada.
Prima di arrivare alle botti, sentimmo delle sparatorie tra civili e militari, io che facevo da capo drappello e la sapevo lunga sulla ritirata della Russia, dissi di cambiare strada, così proseguimmo la via del nostro destino e, per quanto riguarda il vino, non abbiamo visto nemmeno di che colore era!

Camminavamo sempre su strade secondarie, chiedendo di continuo dove si trovava il nemico.
Poco prima di arrivare a Termoli, due aerei tedeschi ci avvistarono e si gettarono in picchiata su di noi per sfracellarci, noi fummo svelti a gettarci per terra e loro non ci presero.

Arrivammo finalmente a Termoli, Monte Garganico, San Severo. A San Severo ci fermammo circa sei-sette giorni perché non si poteva passare da Barletta, Lì, infatti, si era fermato il fronte tedesco e non si poteva passare dal ponte: quanti tentavano di passare venivano fatti prigionieri.
C’erano dei barcaioli che avrebbero potuto trasportarci per mare verso Trani, la nostra destinazione, così – pagando un tot a persona – ci hanno trasportati. Così noi, tranquilli, abbiamo aggirato il fronte tedesco e ci siamo messi a camminare lungo i binari del treno verso Trani. Qui ci attaccarono con la mitraglia, scappammo veloci come il vento e andammo a finire sulla strada di Andria. Piano piano arrivammo alla stazione di Trani; verso tarda sera arrivò il treno per Bari e andammo a Bari, da qui partimmo per Brindisi-Lecce. Durante il viaggio, i controllori chiedevano il biglietto del treno e noi non avevamo nemmeno una lira per poter pagare il biglietto; così ci ammassarono dentro un vagone e proprio lì ci incontrammo con altri: Franco Vito e Deprezzo Giuseppe, anche loro in ritirata.
A Brindisi cambiò la pattuglia che accompagnava noi senza biglietto; giunti a San Pietro Vernotico dico a quelli della pattuglia “Eppure… è bello; sono arrivato a casa e non posso andare a casa!”. Disse uno della pattuglia “Perché non vai via? Per noi se vuoi andare via, vai pure!”. Al mio fianco era seduto Deprezzo Giuseppe, gli dissi che io stavo scendendo e, se voleva, sarebbe potuto scendere anche lui. Mentre il treno ripartiva, ci siamo buttati giù, ce l’ho fatta finalmente ad essere libero da tutto.
Gli altri che erano rimasti nel vagone, scesero a Trepuzzi e arrivarono a casa prima di noi.
Io e Deprezzo ci fermammo a San Pietro Vernotico dove avevo uno zio; la sera abbiamo mangiato e bevuto lì, ci siamo riposati e poi all’indomani, siamo partiti per Veglie.
Finalmente siamo giunti ed abbiamo abbracciato tutti i nostri cari.

Tratto da “I miei racconti della Grande Guerra” di Michele Nicolaci – Veglie

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