Alcuni ricordi della mia infanzia sono impressi in me in modo molto marcato, si tratta di luoghi, persone, atmosfere, odori… I miei 6-7 anni si sono dipanati in un unico viottolo: via san Giovanni. Quanta vita brulicava in quel breve tratto di strada ricoperto da “chianche” che, quando pioveva, formavano delle piccole e luccicanti pozzanghere d’acqua ed io mi divertivo a saltellare tra una chiancha e l’altra senza finire in una pozzanghera e senza schizzare acqua sui passanti. Questa via per me aveva due precisi confini: la piazza da un lato e “lu Miminu Conte” dall’altra. Tra i due confini c’era tutto quello che poteva servire per poter sopravvivere, una marea di negozietti (o “putèe”) che quasi quotidianamente mi giravo. “Lu Miminu Conte” era fornito di tutto: vetri per le finestre, assi di legno, vernici, suola, puntine da 8 e 10 per le sottosuola, gomma per i sottotacchi, chiodi da 60 o da 100… Un moderno supermercato del fai da te.
Al largo della “Porta Noa” ricordo la piccola pescheria “ti lu Mariu ti lu pesce”, si trattava di una casupola di un paio di metri quadrati che formava la “chiazza ti lu pesce”; non era proprio al centro del largo, ma un po’ verso l’esterno costeggiando quasi l’invisibile linea che demarca la stradina che dalla piazza Umberto I defluisce in via san Francesco. Salendo ancora verso la piazza, dal largo della Porta Nuova, c’era un piccolo negozio di generi alimentari proprio all’angolo, quello di Verrienti, un negozietto minuscolo, semibuio, con il proprietario – munito di due spesse lenti – eternamente seduto lì fuori, all’angolo del suo negozio. Sul lato diametralmente opposto, c’era il fruttivendolo “Pietru Baccàru”, fornito di tutto il ben di Dio! Trenta passi ancora si accedeva a tre tipiche “putee”: il negozio “ti lu Fai” che vendeva scarpe, un bel giovane rotondeggiante e rosso di salute; “lu scarparu, mesciuGgìnu” che cantava a scuarciagola le sue arie e “lu parrucchere mesciuLucianu” per il quale spesso mi recavo alla tabaccheria in piazza, nella quale si giocava la schedina, per prendere le schedine non giocate: servivano a lui per pulire il rasoio mentre sbarbava i suoi clienti. Di fronte c’era una piccola osteria “ti Pezzetti e mieru ti lu Miccoli” e accanto, passando una grande scantinato semibuio chiuso da una polverosa rete metallica, c’era “la MiminaTrentapili” che vendeva anch’essa scarpe. “MesciuLuciano” confinava con un altro fruttivendolo, “lu Chirivì”, anch’egli ad angolo.
Con il fruttivendolo si accedeva già ad un altro largo, quello di sant’Irente. Qui, su un lato, quello che costeggia la via principale, c’era l’ingresso della chiesa madre, dal lato opposto il negozio-bazar “ti lu Cambò”. Qui potevi trovare un po’ tutto quello che non era di pertinenza “ti lu Miminu Conte”: bottoni, cotone, spilli, aghi; i bottoni spesso li faceva lui stesso con la macchina che aveva in un piccolissimo sgabuzzino sulla destra del suo bancone. Pochi passi e si arrivava al bar “ti lu Ccòccali”. Passando vicino potevo sentire gli uomini che sbattevano le carte sul tavolo mentre giocavano a “primiera”, a “marianna” o a “briscola”, lo sbattere le carte sul tavolo indicava la superiorità della propria giocata e il non farsi intimidire dalle carte dell’avversario. Nell’aria si sbattevano invece le più strane e tortuose bestemmie, spesso inventate sul momento quando si erano esaurite quelle ufficiali!
Uscendo “dallu Ccòccali” si poteva entrare nell’altra bottega “ti lu Pascali Coppula”, divisa in due da una basso arco rettangolare: da una parte cartolibreria, dall’altra bottega in cui si mesceva il vino nei vari misurini da un quarto, un quinto, ecc… ci si poteva anche fare un saportito panino con prosciutto e provola oppure si potevano assaggiare “pezzetti e mieru”. Di fronte, salendo tre gradini, si entrava nella farmacia della dottoressa Negro, ricordo sia la dottoressa sia il bancone, altissimo ai miei occhi. Infine, dopo la farmacia, c’era “lu tabbacchinu ti lu Cilistrinu”: quanta fila occorreva fare per acquistare il sale. Dopo tutti questi negozietti,si arrivava finalmente in piazza Umberto I. Era incredibile vedere quanta gente – naturalmente tutti uomini – gremiva la piazza. Tutti indossavano la giacca ed il cappello con le tese, tutti parlucchiavano tra loro in piccoli gruppi: sembrava una continua festa patronale. Spiccavano i grossi gruppi vicino ai vari bar: il bar Venezia, sulla destra frontalmente alla torre dell’orologio, il bar Majestic di Martina, il bar “ti lu Fiore”; questi formavano quasi un immaginario trapezio: da un lato il bar Venezia ed il bar Majestic, dall’altro il bar Fiore ed il comando di polizia municipale.
Di Claudio Penna
Immagine copertina di “FotoMauro” (Nardò)